lunedì 17 maggio 2010

NOVITà TERAPEUTICHE TUMORE COLON

Il tumore al colon e al retto e’ quello che più di tutti ha una evoluzione scientifica positiva, relativamente alle cure, con delle terapie che riescono a salvare anche le persone in fin di vita.
In campo terapeutico, l’analisi molecolare del cancro ha comportato importanti variazioni nell’acquisizione di nuovi farmaci antitumorali. Inizialmente, i farmaci furono reperiti attraverso uno screening casuale di migliaia di prodotti naturali e valutati empiricamente per evidenziarne l’attività. Sebbene notevoli sforzi siano stati fatti per razionalizzarne l’uso e per creare le basi concettuali della chemioterapia, non si può dire che si sia riusciti ad evitare che i trattamenti tradizionali restassero fondamentalmente aspecifici e non privi di empirismo, per quanto illuminato.
Già nel corso degli anni ’90, durante la realizzazione del Progetto Genoma, la conoscenza del ruolo di determinate proteine nello sviluppo dei tumori ha consentito di sintetizzare piccole molecole dirette contro tirosinchinasi, quali Glivec, Iressa, Tarceva.
L’identificazione di tutti i geni umani e la delineazione della loro funzione, comporterà l’individuazione di un enorme numero di nuovi enzimi che potranno rappresentare bersagli per farmaci antitumorali. Ciò si tradurrà in un cambiamento delle modalità di acquisizione di nuovi farmaci ricorrendo sempre più frequentemente alla sintesi razionale di composti capaci di interferire con qualsiasi meccanismo molecolare determinante.

Oggi anche un malato di tumore del colon non metastatico in stadio III, quello statisticamente più diagnosticato, ha una possibilità concreta di morire di vecchiaia. Se nel 1990 con la sola chirurgia guariva infatti solo il 44% dei pazienti, a poco più di 15 anni di distanza la percentuale e' salita al 72%. L'introduzione dell'oxaliplatino, dieci anni fa ha di fatto rivoluzionato la terapia del carcinoma del colon, uno dei principali big killer, con oltre 37.000 nuovi casi all'anno in Italia e 17.000 morti. Si è inoltre dimostrato che, a 4 anni dall'intervento chirurgico, aver trattato i malati con Folfox ha ridotto del 25% il rischio di recidiva nei pazienti in stadio III, rispetto al vecchio regime standard, e addirittura del 55-65% se confrontato con la sola chirurgia, senza chemioterapia postoperatoria. Se questa riduzione del 25% la trasferiamo nella realtà italiana, dove si registrano 10.000 nuovi casi all'anno di stadi III, significa salvare dalla ricaduta 700-800 pazienti in più . Per nessuna patologia tumorale si era mai assistito ad un progresso così importante. Se con il solo intervento chirurgico si salva meno della metà dei pazienti con linfonodi infiltrati (l'altra metà presenta una recidiva o una metastasi entro 5 anni), l'aggiunta della chemioterapia con Folfox consente di dare una concreta speranza ad un 30% di pazienti in più. Ma il dato più importante e' che questi risultati si ottengono anche negli stadi II, in particolar modo quelli cosiddetti ad alto rischio, dove ancora non c'e' piena concordia tra gli oncologi sul sottoporre o meno i pazienti a terapia adiuvante dopo la chirurgia. Certo negli stadi II il beneficio assoluto e' inferiore, ma questo si spiega col fatto che anche il rischio di recidiva e' inferiore. Oltre al vantaggio immediato per i malati, i risultati di questi studi aprono prospettive ancora più importanti.
E’ specialmente nel caso del tumore al colon e al retto che si va a cambiare radicalmente la posizione del malato: ridandogli speranza di vita. Il cancro colon-retto e’ considerato il principale tumore mortale degli ultimi anni, per l’uomo, ma con l’avvento dei farmaci biologici la speranza di vita e’ quadruplicata, tenuto conto che questi farmaci sono meno tossici dei farmaci usati nella terapia classica.
Il ruolo fondamentale degli anticorpi monoclonali, farmaci cosiddetti biologici diretti contro i fattori di crescita cellulare che alimentano i vasi sanguigni del tumore offrono un contributo alla speranza di guarigione del cancro colon rettale metastatico, la seconda forma di neoplasia più comune al mondo.
La molecola capostipite degli anticorpi monoclonali, bevacizumab, in pazienti con carcinoma colon rettale metastatico, aggiunge in media, quasi due anni di vita, migliorando in modo significativo le possibilità di sopravvivenza, dopo l'intervento chirurgico di rimozione del tumore. Gli anticorpi monoclonali, si sono dimostrati efficaci quando il cancro è localizzato e si è subito un intervento, precisando che nel tumore del colon, se il paziente ha avuto una resezione radicale, ha già un 50 per cento di possibilità di guarigione. La chemioterapia aggiunge un altro 20-25 per cento di probabilità di guarigione. Ciò significa raggiungere il 75 per cento. Aggiungendo nuovi farmaci biologici, quel 25 per cento diventerà un 30-35 per cento, portando la percentuale di guarigione all'85 per cento. Se però la malattia non è localizzata ma disseminata, in generale non si guarisce ma i progressi di questi ultimi anni hanno dimostrato che vi è un aumento delle percentuali delle guarigioni, con gli anticorpi monoclonali, anche a questo stadio. La ricerca è in rapida evoluzione .
La vera sfida nella lotta al cancro è individuare la terapia “su misura” per ogni paziente. La chiave della risposta ai trattamenti è infatti racchiusa in alcuni geni: la loro presenza permette di determinare a priori chi risponderà in maniera positiva ai nuovi farmaci ad azione mirata. Nel caso del colon retto questo “segnale rivelatore” si trova nel gene KRAS.
Il gene KRAS (Kirsten Rat sarcoma 2 viral oncogene Homolog) fa parte della famiglia di geni denominati protoconcogeni RAS. Normalmente il gene ha un ruolo fondamentale nella trasmissione della segnalazione cellulare; in particolare favorisce il controllo della crescita cellulare.
Nei tumori del colon-retto, però, questo oncogene ha una caratteristica peculiare: la presenza del gene mutato è una chiara indicazione per i medici su quale tipo di terapia, attualmente disponibile, utilizzare. Recenti risultati della ricerca hanno dimostrato che secondo una logica on-off la presenza del gene KRAS mutato rende perfettamente inutile l'utilizzo per la cura del tumore al colon-retto in fase metastatica dell'anticorpo monoclonale panitumumab, Avere a disposizione un test clinico che ci dica che se la mutazione per questo gene è presente, oppure no, aiuterebbe i medici che devono decidere la chemioterapia più appropriata per il cancro del colon-retto.
Nuovi studi, monoclonale cetuximab, utilizzato per il trattamento del tumore del colon retto metastatico, dimostrano infatti come questa molecola funzioni al meglio in malati che non presentano la mutazione di questo marcatore. I risultati dei due importanti studi di fase III (Crystal) e di fase II (Opus) dimostrano come i pazienti senza la mutazione del gene KRAS trattati con cetuximab più chemio rispondano in maniera molto più significativa alla terapia rispetto a quelli trattati con la sola chemioterapia. Lo studio Crystal ha valutato gli effetti dell’aggiunta di cetuximab alla chemioterapia standard (FOLFIRI) in pazienti senza la mutazione del gene KRAS: la risposta è stata del 59% vs il 43% di chi aveva ricevuto solo la chemioterapia standard e il rischio di progressione della malattia è risultato ridotto del 32%. Lo studio Opus ha invece valutato l’aggiunta di cetuximab ad un altro schema chemioterapico classico (FOLFOX) in pazienti senza mutazione ed anche in questo caso il tasso di risposta è stato del 61% rispetto al 37% della sola chemio, e il rischio di progressione è risultato ridotto del 43%

domenica 9 maggio 2010

UN VIAGGIO DELLA SPERANZA DAL NORD VERSO IL SUD

Da Firenze a Bari ero inguaribile mi hanno salvato'
Repubblica — 14 aprile 2004

Ora, ringrazia e vive. Maria Cristina S., 59enne insegnante toscana, aveva un tumore e i medici fiorentini l' avevano data per spacciata. Ma lei ha fatto la valigia e si è preparata al suo viaggio della speranza. Una speranza, per una volta, capovolta.
Non da Firenze a Milano o Parigi, ma dalla Toscana alla Puglia. A Bari, dove un medico dell' ospedale «Di Venere», senza illuderla, l' ha curata. E' cominciato tutto tre anni fa, quando Maria Cristina si sottopone alle prime analisi. La diagnosi è impietosa: adenocarcinoma al pancreas. La malattia è già abbastanza diffusa e i medici dell' ospedale di Firenze, città dove l' insegnante vive, decidono per l' intervento chirurgico immediato. Si rivolge persino alla sanità francese: a Parigi i medici confermano la diagnosi e propongono la stessa terapia. Le vengono asportate parti del pancreas e la milza. Il passo successivo è l' obbligatoria e dolorosa chemioterapia. E sono cicli su cicli. Ma la prognosi resta la più atroce, «infausta». Il tempo di Maria Cristina si va inesorabilmente esaurendo: i medici glielo hanno detto chiaro che non c' è più nulla da fare. Ma la donna, che ha due figli, un marito e un nipotino, non ha voglia di lasciarsi andare. E così coglie al volo una voce, di quelle che girano basse nei corridoi dei reparti oncologici, negli ospedali. «Ho sentito dire che a Bari c' è un medico...». A Bari? E' possibile che la soluzione negata nel Nord delle mille alternative si trovi proprio lì, nel Sud delle tante occasioni sprecate? A Maria Cristina non resta che provare. E' stato così che l' insegnante toscana si è ritrovata all' ingresso dell' ospedale «Di Venere» di Bari. Altri corridoi da attraversare, altre scale da fare, sempre la stessa aria pregna di etere da respirare. Un altro ambulatorio di Oncologia in cui farsi visitare. Il medico di cui le avevano parlato è proprio il dirigente di quell' ambulatorio. Si chiama Giuseppe Rizzi. Lui non le mente, non la prende in giro. E anzi conferma: sia la diagnosi che la prognosi prospettata negli altri ospedali sono esatte, dice il dottore barese. Che però subito aggiunge: «Non è semplice, ma ce la possiamo fare». Va così che la prima fase della nuova cura «non è semplice». Maria Cristina viene nuovamente sottoposta a cicli su cicli di chemioterapia: 16 volte. A queste, la ricetta barese aggiunge una serie di terapie «di supporto». E le prime reazioni sono deludenti. Le condizioni della paziente peggiorano. Ma, a questo punto, la parabola torna a salire. Dopo due mesi, la donna viene dimessa dall' ospedale e continua periodicamente il trattamento ambulatoriale. L' ultima Pet (l' analisi più approfondita possibile del metabolismo tessutale, al momento disponibile in pochissimi centri in Puglia), effettuata al «San Raffaele» di Milano lo scorso luglio, ha evidenziato una «regressione totale» della malattia. Maria Cristina è ancora sottoposta a cure «di mantenimento». Ma è guarita e ha perciò deciso di scrivere alla Regione Puglia e all' Asl «Bari Quattro» per raccontare la propria storia. Per dire grazie a quel medico. A lui, Giuseppe Rizzi, il direttore dell' ospedale «Di Venere» Giuseppe Pellecchia, ha inviato una nota di encomio. «Tale segnalazione fa onore a lei e al servizio di Oncologia», ha scritto nella nota il direttore. A lei, Maria Cristina S., è stato regalato il tempo di dire: «Conduco la mia vita di sempre, guido, lavoro, stringo tra le braccia il mio nipotino. Sono ancora io».